lunedì, Settembre 30, 2024
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arriva il primo documento per supportare il paziente che chiede di morire


Per la prima volta in Italia, un tavolo di lavoro composto da psicologi, medici, infermieri, assistenti spirituali, bioeticisti, giornalisti e familiari si è riunito con l’obiettivo di garantire una risposta condivisa e multidisciplinare alla domanda del paziente che chiede di revocare, rifiutare o accedere al suicidio volontario medicalmente assistito circostanziato. L’esito di questo lavoro, contenuto nell’e-book «Sofferenza e desiderio di morte, le prassi dello psicologo, medico, infermiere a sostegno della persona», è disponibile gratuitamente sul sito dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, tra i promotori dell’iniziativa insieme alla Società Nazionale Medica Interdisciplinare cure primarie e all’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica APS.

Un lavoro multidisciplinare che mette al centro la volontà del paziente

«Il lavoro è consistito in un dibattito costruttivo tra professionisti e esponenti della società civile sensibili alle tematiche che, pur provenendo da impostazione culturali e profili professionali diversi, hanno voluto raggiungere un risultato condiviso», spiega Monia Belletti, psicologa, psicoterapeuta e coordinatrice del progetto. «Il Tavolo ha lavorato cercando di dare risposte concrete, ispirate dalle conoscenze attuali, dai dati empirici e dell’esperienza degli operatori, ponendo al centro il rispetto per la dignità e la volontà della persona. Il testo prodotto – continua – vuole essere un punto di partenza e, auspicabilmente, uno spunto per ulteriori analisi, riflessioni ed elaborazioni, anche con il contributo di nuove figure, essenziali in un contesto professionale in continua evoluzione”.

Compito dello psicologo è accogliere e comprendere le richieste del paziente

«La persona che dice di desiderare di morire vive una condizione mentale particolare, segnata da una condizione di sofferenza fisica e psicologica estrema», commenta Jean-Luc Giorda, psicologo, psicoterapeuta. «Compito dello psicologo è accogliere questa condizione e la persona che porta questa richiesta senza giudicarla, ma aiutandola a comprenderla e a elaborarla. La nostra funzione – continua – è scremare quella parte di pensiero ed emozione che deriva direttamente dalla condizione di sofferenza generata dalla malattia per consentirle di essere più lucida nella sua autodeterminazione, che va comunque rispettata». Aggiunge Fabio Lucidi, psicologo e professore ordinario di psicometria: «Nelle decisioni che coinvolgono i pazienti in fase avanzata della malattia, per ragioni etiche, non è opportuno seguire i rigidi criteri metodologici dei clinical trial. Ma questo non significa rinunciare alla forza delle evidenze: vuol dire, piuttosto, integrare i migliori dati disponibili con l’esperienza professionale, con le caratteristiche, i bisogni, i valori e le preferenze dei pazienti, compatibilmente con il contesto ambientale, organizzativo e normativo».

Professionisti sanitari impreparati ad entrare in sintonia con i pazienti e i famigliari

«L’università – spiega Pietro Stampa, vice-presidente e coordinatore della commissione deontologica dell’Ordine degli Psicologi del Lazio – non prepara nessuna delle professioni di cura alla sfida intellettuale della messa tra parentesi dei propri valori, del proprio punto di vista etico, per entrare in sintonia con l’altro, che non è solo il paziente, ma anche il famigliare, l’operatore. Lo psicologo è l’unica figura professionale in cui la relazione con l’altro non è solo terreno in cui si dispiega l’intervento, ma è anche il principale strumento di lavoro e di verifica della sua efficacia. Su questo, dunque, può trasferire alcune skill tipici alle altre famiglie professionali».

Serve più educazione e formazione sul fine vita

«Effettivamente, nessuno ha avvicinato noi medici alla risposta a un rifiuto a vivere e alla messa in atto di questa volontà – ribadisce Daniela Cattaneo, medico palliativista e bioeticista -.Il processo del malato che esprime la richiesta di morire non lo conosciamo in tutte le sue diramazioni, abbiamo la necessità di un quadro più armonico, di una seria educazione al fine vita, di un più forte coinvolgimento degli specialisti delle cure palliative, di una chiara attività di informazione, di applicare il principio per cui la comunicazione è intesa come tempo di cura». Aggiunge Anna Tedeschi, infermiera palliativista: «Non sempre la richiesta di aiuto della persona malata è così manifesta, ed è qui che interviene l’importanza dello stare accanto, del prendersi cura dell’assistito e non solo della sua malattia. Bisogna ascoltare e fare in modo che la persona disponga delle informazioni condivise con l’equipe necessarie non solo ai suoi bisogni di vita, ma anche alla scelta consapevole dei percorsi di cura proposti».

 



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